di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo

di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo



lunedì 13 dicembre 2010

11. Il desiderio è nell'interumanesimo

Psiché sta finalmente entrando a pieno titolo nel dibattito sulla Polis. E’ quanto emerge anche dal 44esimo rapporto del Censis, che quest’anno elabora una diagnosi sullo stato di salute psichica del nostro Paese, cercando di individuare quali siano le cause profonde del malessere che tutti sentiamo avanzare. Il suo presidente, il sociologo Giuseppe De Rita, già dal titolo della sua relazione, evidenzia che quello italiano è "un inconscio collettivo senza più legge, né desiderio": perché siamo una società “troppo appagata e appiattita”, “pericolosamente segnata dal vuoto" che va verso "un ciclo segnato dall'annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti". Lascia intendere, De Rita, che non basta più la sola Ragione, pur se accompagnata da Economia e Sociologia, a spiegare questa dinamica di deriva socio-culturale. Riflessione necessaria quanto attesa, visti anche i numerosi commenti sui quotidiani, come quello di Ida Dominijanni su il manifesto del 4 dicembre: “Siamo paralizzati da qualcosa di più profondo che la contabilità economica o un trend che va storto: un grumo inconscio che annoda il rapporto tra desiderio e legge". O Benedetta Tobagi che, su la Repubblica dello stesso giorno, rileva giustamente che “il cambiamento dovrà partire necessariamente da dentro di noi”.

Va bene che finalmente si guardi in faccia una realtà asfittica avvalendosi di strumenti umanistici e non meramente economico-elettorali, a patto però che non si scivoli nella solita falsa e nociva rappresentazione catto-freudiana di una società moderna “senza freni” dove, per essersi "eclissati l’Edipo e il padre", saremmo preda di una “onda di pulsioni sregolate” (quella presunta "sregolazione pulsionale", dello psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, da cui il Censis si fa ispirare per il suo rapporto). Analisi, questa, con cui possiamo solo dissentire: la questione non essendo la libertà sfrenata o la fine delle autorità, ma semmai la violenza distruttiva dei rapporti e la malattia mentale sempre più "incurantemente" diffusa, che sono le uniche variabili a determinare “frantumazione, vuoto, immobilità, violenza" e altri sintomi. Il rapporto Censis propone però un invito stimolante e nuovo quando dice che occorre un rilancio del desiderio: “tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”, scrive ancora De Rita. Sì, ma chiediamo al sociologo: cos’è il desiderio? Sembra quasi che egli lo ritenga una virtù astratta "degli" esseri umani che prescinde dalla dinamica "tra" esseri umani, e in special modo tra donna e uomo...

E' proprio il rapporto interumano che si sta modificando nella società odierna e che il Censis nemmeno menziona, se non in negativo: quel necessario rapporto creativo, irrazionale, libero "tra" esseri umani di cui parla Massimo Fagioli nella sua Teoria della nascita (eccola, la Teoria!) e in tanti suoi scritti. Bisogna andare oltre anche il bel titolo della Tobagi su Repubblica, “Nuovo Umanesimo antidoto al vuoto”, perché un umanesimo anche nuovo, da solo, ancora non basta. Dobbiamo allora pensare che il vero antidoto stia in un ”Interumanesimo”: parola-idea-speranza che, sulla scorta della Teoria fagioliana, avevamo già coniato un anno fa (l’Unità, 27.08.09) con l'obiettivo di congiungere umanesimo e rapporti umani. Per puntare seriamente alla ricostruzione di una società davvero nonviolenta, per ritrovare vitalità e fantasia collettive. Perché - scrivevamo - è "sul terreno della diversità – all’interno dei rapporti interumani – e nel confronto, non certo nell’isolamento delle identità, che va cercato il seme di quell’agire comune che è così drammaticamente assente in questo Paese autoritario e incanalato in modelli unici. Conservatore e clericale; dove vigono immobilismo e rassegnazione, carenza di vitalità e di fantasia. Dove una società sempre più virtuale e anaffettiva accetta come 'normale' una forma di lenta ma crescente disumanizzazione. Quando non si è più capaci di tracciare i limiti tra che cos’è l’umano e cosa non lo sia, è chiaro che diventa improbabile o insensato pensare e fare politica; e riuscire a dissentire. E ribellarsi per trasformare il presente".

Questa rivoluzione-desiderio delle donne e degli uomini noi la chiamiamo “Interumanesimo".

giovedì 9 dicembre 2010

10. L'ingiusta distanza

Si chiama “percezione delirante”. Prima ancora che fosse svolta un’indagine approfondita, il responsabile della scomparsa di Yara Gambirasio era già stato individuato: un operaio marocchino. Per 24 ore, da nord a sud, dai giornalisti alla gente comune, si è voluto credere o far credere che un immigrato fosse il colpevole perfetto. Percezione rivelatasi… delirante.
Non si può accantonare con leggerezza la gravità di una reazione che, oltre a confermare ancora una volta la xenofobia dilagante nel nostro Paese, denota una deformazione della mente di alcuni italiani, secondo cui la pelle scura è diventata facile sinonimo di delinquenza.
Ed è l’ampiezza delle dimostrazioni, dagli striscioni alle dichiarazioni mediatiche, al linciaggio prima di tutto simbolico, che dovrebbe farci fermare a riflettere e, almeno, a chiedere scusa a Mohamed Fikri. Scuse ufficiali, pubbliche, per aver invaso e denigrato la sua vita, con il solito glossario preconfezionato di aggettivi-pregiudizi (il Messaggero è arrivato a usare la parola “randagio”, come per un cane) che accompagna il sostantivo “immigrato”.
E torna in mente il bellissimo film “La giusta distanza” (2007) di Carlo Mazzacurati, che con le immagini già anticipava questa preoccupante dinamica psico-sociale: anche lì, un uomo tunisino era ingiustamente accusato e imprigionato per la morte di una giovane italiana, allorché il vero colpevole era un altro italiano. Tuttavia, il tunisino innamorato che aveva ballato la sua diversità sulla piazza del paesino di adozione, diventato conveniente capro espiatorio, finiva per suicidarsi in carcere: perché la donna che amava era morta. Perché non era stato lui a ucciderla.

mercoledì 17 novembre 2010

9. Se una notte d'inverno uno psichiatra...

Non vorremmo incontrare di notte, in una strada buia, fredda e isolata, lo psichiatra Vittorino Andreoli. Non tanto per l’inquietante foggia tricologica che ha contribuito a renderlo popolare (televisivamente parlando). Quanto per ciò che ha scritto il 15 novembre scorso sul Corriere della Sera: "Siamo circondati da nemici e sono pronti a ucciderci, per un nonnulla, per una banalità... Schegge di violenza che possono colpire chiunque... Una violenza pulsionale, come se l’uomo avesse perso i freni inibitori”.
 Arrivando persino a teorizzare: “E' in corso una metamorfosi antropologica e si profila un uomo pulsionale, istintivo e selvaggio, senza più il senso di colpa... C’è in ciascuno di noi un serbatoio di frustrazione che può fare una strage...".
Dunque, saremmo circondati. Dal Male che ribolle in persone-pentole pronte a esplodere per un nonnulla. Tutti potenzialmente assassini incontinenti, perché tutti “lupi-pazzi”, come millenariamente martellano i detentori della vulgata ufficiale. Ma quello che è ancora più grave, nell'allarme dello psichiatra, è che egli non riesce proprio a pronunciare le parole "malattia mentale".
Solito discorso: siamo originariamente pazzi e peccatori e se non agiamo la nostra peccatrice pazzia è soltanto grazie a presunti "freni inibitori" e al “senso di colpa”, imposti dall’alto di società e chiese. Ergo: più sicurezza, più controllo, nessuna libertà, altrimenti ci scanniamo! E perché non posizionare un esorcista agli angoli di tutte le strade?
Una cosa Andreoli è costretto ad ammetterla, con una sentenza che evidentemente lo riguarda: "La psichiatria, che era la disciplina che si occupava di comportamenti sani e malati e che si proponeva di curare chi si comportava in maniera pericolosa, è confusa". Ce ne siamo accorti, caro professore.
Ma non pensavamo, con il nostro inguaribile ottimismo della Nascita, di dover guardarci le spalle anche dagli specialisti, da cui ci aspettiamo semmai di ricevere analisi concrete di ciò che accade, non ulteriori deliri catto-hobbesiani-freudiani.

sabato 6 novembre 2010

8. Depressione politica


Già da qualche giorno, un quesito che il lettore Paolo Baruffaldi ha rivolto a "la Repubblica" sui nessi tra depressione e clima politico-culturale, ci risuona nel profondo. È la rubrica delle lettere ai giornali che spesso diventa antica Agorà, fucina di idee, luogo di sincerità (tanto che talvolta vi ricorriamo anche noi...).
Ed è sempre notevole che sia un lettore, molto più efficacemente di tanti commentatori professionisti, a centrare il "latente" della deriva politico-culturale italiana, riassumendo mille interrogativi in un'unica sentenza. Il signor Baruffaldi semplicemente domandava al giornale del 2 novembre (senza purtroppo avere una risposta): "E' possibile che un individuo si ammali a causa del clima culturale dell'epoca?".
Per noi la sua domanda è pleonastica: sì, un clima politico-culturale ammalato non può non avere effetti sulla psiche dell'individuo, che non è una "bolla", ma è per sua natura sociale e interumana. Se politica e cultura sono violente nell'annullare la realtà, la verità, l'identità e la vita stessa della persona, quest'ultima può stare male. Dunque, il clima da abisso psicopatologico in cui viviamo può ammalare le menti, eccome! Gli esempi sono sotto i nostri occhi: omicidi reiterati, xenofobia dilagante, feudalizzazione sociale, oscurantismo religioso, spettacolarità del nulla e contestuale annullamento di ciò che è irrazionale, vitalità e fantasia.
L'urgenza di capire i nessi tra la malattia mentale e una politica/cultura velenosa è la base del nostro laboratorio, nonché proprio del lavoro di queste settimane e le domande che gridano un'esigenza di risposta sono l'humus... interumano della nostra ricerca. Per ribellarsi, senza ammalarsi.

mercoledì 27 ottobre 2010

7. La violenza deve sempre stupire

Per Lucetta Scaraffia, come scrive nel suo articolo "Se l'io è ridotto solo a pulsioni, la violenza non deve stupire" (Il Riformista, 21 ottobre), gli istinti bestiali che abiterebbero dentro ognuno di noi, se non tenuti a bada da padri-chiesa-istituzioni, sfociano "naturalmente" in violenza.
Il solito inganno catto-freudiano, tanto che l'ispirazione arriva alla nostra dallo psicologo dell'Osservatore Romano Claudio Risé, il quale a sua volta rimpiange "il venir meno della figura paterna come figura normativa" e "il sovvertimento di un intero ordine simbolico". Magari, perché no, dovrebbe arrivare un bel padre-prete (pedofilo) a salvarci?
Ma il meglio della commentatrice psico-vaticanista sboccia nella sua analisi dei recenti delitti mediatici: "l'amore esagerato per il cane" (nel caso del tassista milanese) e "il culto del corpo, l'investimento nel body building" (nell'omicidio dell'infermiera romena), sarebbero i moventi dell'omicidio. E una "soggettività debordante", "un'attenzione maniacale a se stessi", dunque il super-ego di una società secolarizzata, le cause del passaggio all'atto violento... Tutto fuorché pronunciare le parole-tabù: malattia mentale. Tutto fuorché riconoscere che l'unica "pulsione" in grado di spiegare la violenza: la" pulsione di annullamento", scoperta e teorizzata da Massimo Fagioli negli anni '70.
La tossicità degli pseudo-sapienti che occupano i giornali con i loro commenti sta infatti nel non voler vedere che le pulsioni diventano distruttive per via di rapporti interumani malati; ma che possono essere "curate", dato che gli esseri umani sono sani alla nascita. Il terrorismo del potere "culturale", che ci vorrebbe tutti criminali, è di voler "gestire la società dalle sue pulsioni negative", tramandare di generazione in generazione l'idealizzazione della "castrazione come unica sopravvivenza", come proprio Fagioli preconizzava trent'anni fa in quella miniera d'oro attualissima che è il suo "Bambino donna e trasformazione dell'uomo".

sabato 23 ottobre 2010

6. Difendersi da una "Cultura" che avvelena

Questa settimana dovremmo prendercela un po' con tutti: Lucetta Scaraffia e Claudio RiséAdriano Sofri e Francesco PiccoloElena Dusi e Carlo Picozza, e poi ancora Umberto GalimbertiPietro CitatiEmanuele Severino e Umberto Eco. Sono decisamente troppi, non ce la faremmo in queste poche righe, ma ci proveremo comunque nelle prossime settimane, affrontandoli uno ad uno.
Per adesso li includiamo sotto una sola categoria, che a loro farà pure piacere, ma che a noi piace sempre meno per il suo alto contenuto di tossicità: CULTURA. Quella che ci viene propinata quotidianamente dai giornali; quella che ritiene di possedere in tasca ogni verità; quella che plagia, inculca, pedagogizza, didascalizza, pontifica, monopolizza, devia o cerca di deviare le nostre menti.
Ci vuole tanta resistenza e la certezza-esperienza di un'altra realtà umana, per rifiutare ogni mattina il martellamento di questa cultura dominante perversa, che ci vorrebbe tutti malati originariamente, dalla nascita. Tutti criminali e malefici peccatori, dall'origine. Controllati semmai dalla coscienza o dalla fede.
Una cultura che sguazza felice in un teorema catto-freudiano e che da decenni, se non da secoli e millenni, con l'ineluttabilità di una natura umana violenta, sancisce l'autorità delle istituzioni, sacre e non, che terrebbero a bada i nostri istinti animaleschi. Una cultura che, da qualsiasi angolo la si osservi, lavora instancabile per convincerci che il Male è dentro ognuno di noi, per prospettarci un destino di marionette obbedienti e identificate, per smarrire la creatività, la vitalità, la fantasia e la sanità degli esseri umani e soprattutto soprattutto convincerci che nessuna trasformazione sia possibile.

lunedì 18 ottobre 2010

5. Trattati come cani

Dalla lettura di "Cani. Sono i migliori amici dello psichiatra" (Elena Dusi, la Repubblica 18.10.10) si evince che, oltre a chi vuole diventare una star di Hollywood, si potrebbe consigliare di andare in California anche a chi voglia intraprendere una brillante carriera in neuropsichiatria.
 I più avanguardistici studi sulla mente umana vengono da lì e l'ultimo in ordine di tempo è la rappresentazione di questo primato, conteso soltanto dai tedeschi di Jena.
Dopo le pecore sognatrici germaniche, infatti, e la scoperta californiana di un'attività neurale nei moscerini - entrambi gli animali molto liberamente associati all'essere umano - dalla patria di Schwarzenegger e Rambo adesso arrivano i cani pazzi: attraverso lo studio dei più fedeli amici dell'uomo, l'Università di San Francisco ha appena decretato che siamo come loro.
Stesse malattie mentali, stesse cure farmacologiche. Così, proprio mentre le case psicofarmaceutiche americane rischiano la chiusura per l'inefficacia dei trattamenti organistici delle malattie mentali, ecco che nuova linfa potrebbe arrivare loro dall'osservazione di Fido e Pluto.
Questo, dunque, lo stato dell'arte della psichiatria mondiale: non potendo ammettere il fallimento pressoché totale del trattamento farmacologico nella cura della malattia mentale, non sapendo che pesci pigliare nemmeno da un punto di vista psicoterapeutico, ancora legati come sono a Freud e ai suoi derivati, gli scienziati del cervello si riducono a fare bau bau. Mentre sono i malati di mente, ancora e sempre, a essere trattati come cani.

mercoledì 29 settembre 2010

4. "Housegate" e gargarismi

Gli storici del futuro ci spiegheranno tra un ventennio a che punto siamo ridotti, all’alba di questi anni Dieci, se per mesi la nostra attenzione è stata indotta, forzata sul pensile da cucina di una presunta residenza monegasca del Presidente della Camera, se sia stato o meno acquistato da Scavolini o da Merloni; e se il citofono sia stato riparato e da quale elettricista, e chi siano i veri vicini di casa del cognato: occasione, questa, per conoscere ogni parentela di Gianfranco Fini, diretta e indiretta, compresi gli ex fidanzati della sua compagna.
 Il nuovo “Housegate” condito in salsa italo-caraibica sarebbe mirato a fare fuori un (falso) oppositore, ex fascista del Msi e attuale del Pdl, per ridurci al misero orizzonte di un governo di destra contrapposto a una opposizione di destra.
E ciò avviene mentre già subiamo quell’altro quotidiano teatrino di cartapesta verde dove, tra donne ovviamente seminude e rampanti lumbard ritardati, un malato di mente urla gargarismi post-ictus xenofobi e campanilisti, debitamente tradotto, decodificato, sottotitolato da media consenzienti. Un italiano incomprensibile ai più, il suo, che forse è già la lingua che si insegnerà nelle scuole baciate dal Sole delle Alpi.
Annaspiamo in pieno Bar sport, nel delirio di una enorme tifoseria monocolore che finge di giocare contro se stessa, ma senza arbitri. Abbiamo già girato le televisioni “a reti unificate” contro il muro, come un tempo suggeriva Boris Vian, ma siamo comunque, ovunque inseguiti dagli strilloni dell’informazione dell’unico eterno giornale editore server testata.
Da questo affanno, intravediamo il nuovo simbolo della Sinistra: incudine e martello. Sulla sigla da metterci in mezzo, stanno ancora litigando.

venerdì 24 settembre 2010

3. Clandestino Day

Oggi, in occasione del Clandestino Day, si potrebbe partire da una riflessione sul linguaggio. Quello che bandisce, fomenta diffidenza e xenofobia, sposta lentamente il senso comune tra un “noi” e degli pseudo “altri”.
“Clandestino” è una di queste parole-muro, parole-arma. Sembra innocua, soltanto “mediatica” e abusata sui giornali italiani, invece evoca segretezza, ombra, legami con la criminalità… Citiamo dall’appello di Giornalisti Contro il Razzismo: "Viene utilizzata per indicare persone straniere che per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno, per quanto vivano alla luce del sole, lavorino, conducano esistenze 'normali'".
Sono così definite "clandestine" persone che non sono riuscite a ottenere il permesso di soggiorno o a rinnovarlo a causa dell’impraticabile burocrazia italiana, altre che sono entrate in Italia con un visto turistico poi scaduto. Peggio, sono a grande maggioranza rifugiati, profughi, richiedenti asilo e in attesa di una risposta alla loro richiesta, o ancora sfollati in fuga da guerre o disastri naturali.
E’ sempre possibile evitare questa parola stigmatizzante e usarne un’altra, come afferma questo appello e anche la ancora poco rispettata dai giornalisti “Carta deontologica di Roma sui richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti”.
Inoltre “clandestino” non significa niente: un’infrazione amministrativa non definisce un uomo. E, visto che ci siamo, mettiamo anche al bando le parole “vu cumprà”, “extracomunitario”, “nomadi”, “zingari, “barbari”… e teniamo gli esseri umani!

mercoledì 15 settembre 2010

2. Se la Mostra del cinema premia la reality

C'è qualcosa di marcio a Venezia. Altrimenti "Somewhere" di Sofia Coppola non si sarebbe aggiudicato il Leone d'oro. Intanto il film non dice davvero niente. A cominciare dal soggetto da due righe: un attore famoso di Hollywood consuma la sua vita tra alcool, aspiranti starlette che gli si offrono a ogni angolo, medicine ingurgitate un po' a caso, giri a vuoto con la sua supermacchina nera, fino a che non si ricorda di avere una figlia che, con la sua presenza lieve ma integerrima, finalmente lo redime. I rari dialoghi, poi, sono perfettamente banali, vuoti.
E il modo di raccontare la storia è piatto, realistico, senza immagini (a parte una o due, a voler essere pietosi: la bambina che pattina sul ghiaccio che probabilmente avvolge anche suo padre e quest'ultimo che frigna telefonicamente la sua nullità all'indirizzo della ex moglie). A un certo punto sembra di assistere alla nuova edizione del Grande Fratello, versione italo-americana: l'attore assiste svogliatamente a reiterati spettacoli di lap dance a domicilio, si addormenta ubriaco in due momenti pseudoerotici, si alza con i postumi della sbornia almeno per tre volte (e infatti lo vediamo bere birre e superalcolici a ripetizione), fa la doccia e si lava i denti, vaga con il suo bolide senza che la regista ci risparmi una sola curva e un solo cartello stradale, rimorchia tante donne molto disponibili (è anche un po' misogino questo film).
E tutto è descritto pedissequamente per farci capire nientemeno che il divo è depresso, che la sua vita a Los Angeles non è l'oro luccicante che noi poveri mortali immaginiamo e ogni sua frase sembra essere studiata per rimandare a qualcosa, tenendoci tutti con il fiato sospeso: invece no. Quel qualcosa è niente. Oppure ha già detto tutto, dai primissimi fotogrammi. E quel tutto è appunto: niente. Insomma, perché "Somewhere" vince a Venezia?
Perché in tanti colleghi già si allineano compatti per sponsorizzare il verdetto della giuria, in un rimando di sbrodolamenti e di timori reverenziali? Perché si vuole mandare la gente a vederlo facendo finta che si tratti di un film impegnato soltanto perché è lento, di un film poetico perché parlano tutti poco? Perché quella stessa gente dovrà uscire dalla sala "credendo" che il film gli sia piaciuto perché sicuramente dietro quel "film-poesia" (come ha osato definirlo Roberto Silvestri sul Manifesto!) c'è un messaggio segreto?
E perché, infine, un altro critico come Paolo D'Agostini su Repubblica, per stroncare la "Tempesta" di Julie Taymor, vuole sottolineare che "siamo dalle parti degli esercizi da ammirare ma ci piace di più il cinema che sentiamo più vicino a noi" (noi chi?), quasi a dire che dobbiamo restare a storie che non ci facciano pensare, che non ci facciano sognare e immaginare, che parlino il "nostro" linguaggio (nostro di chi?)? Una risposta, inconsapevolmente, ce l'ha data proprio uno spettatore di "Somewhere", fuori dalla sala: "Mi è piaciuto, mi sono fatto cullare da questo nulla".
Ecco, se dobbiamo passare da una realtà di routine, lavoro, traffico, rapporti umani azzerati, violenza, indifferenza, qualunquismo politico al reality-chic nel cinema, al red-carpet dell'anaffettività, allo stereotipo in cinemascope della nostra tv di veline e berlusconi, allora forse è meglio che rimaniamo a casa, possibilmente a telecamere e cineprese spente.

martedì 7 settembre 2010

1. Fuori il "diverso" dalla società degli "uguali"

In questa estate fangosa, un parallelismo inquietante tra le notizie continue di omicidi contro le donne e l'ondata xenofoba che ha caratterizzato cronaca e politica, pone con forza una domanda nuova. Non sarebbe da evidenziare il nesso invisibile, sotterraneo, tra la violenza contro le donne e quella nei confronti degli immigrati? Non sarebbe infatti un annullamento, pressoché identico, contro il diverso da sé?
Nel primo caso, a venirci in mente non è certo "la brusca mutazione antropologica" dei rapporti tra i sessi ricordata da Luigi Cancrini (l'Unità, 6 settembre), né la normale dialettica sulla parità che secondo lo psichiatra sarebbe "un elemento di conflitto alla base di molti dei delitti più gravi". Piuttosto, si dovrebbe affermare senza ombra di dubbio, ed è paradossale che tocchi a noi farlo, che, se un uomo arriva ad ammazzare una donna, si tratta di malattia mentale, e che semmai questa va individuata partendo proprio dalla "pulsione di annullamento" (Massimo Fagioli).
Nel caso degli immigrati, l'accanimento appare semmai sotto altre forme, che vanno dall'insulto, alle botte o al respingimento, quando non all'eliminazione fisica, ma la sostanza dell'annullamento del diverso è la stessa. Sfociato negli ultimi mesi, nell'accesso delirante di propaganda politica e culturale, dalla Francia all'Italia, di una "necessaria" espulsione di qualche centinaio di rom (figura che rappresenta il diverso per antonomasia), come se quella fosse la soluzione ai mali della società occidentale.
Parallelismo inquietante, forse. Ma come non cogliere che sia la donna, sia l'immigrato, propongono una immagine irrazionale e sconosciuta? Sradicare ogni "diverso" dalla società degli "uguali" porterà soltanto a specchiarsi in una figura monocromatica, maschile, razionale. Praticamente un mostro.