di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo

di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo



mercoledì 15 settembre 2010

2. Se la Mostra del cinema premia la reality

C'è qualcosa di marcio a Venezia. Altrimenti "Somewhere" di Sofia Coppola non si sarebbe aggiudicato il Leone d'oro. Intanto il film non dice davvero niente. A cominciare dal soggetto da due righe: un attore famoso di Hollywood consuma la sua vita tra alcool, aspiranti starlette che gli si offrono a ogni angolo, medicine ingurgitate un po' a caso, giri a vuoto con la sua supermacchina nera, fino a che non si ricorda di avere una figlia che, con la sua presenza lieve ma integerrima, finalmente lo redime. I rari dialoghi, poi, sono perfettamente banali, vuoti.
E il modo di raccontare la storia è piatto, realistico, senza immagini (a parte una o due, a voler essere pietosi: la bambina che pattina sul ghiaccio che probabilmente avvolge anche suo padre e quest'ultimo che frigna telefonicamente la sua nullità all'indirizzo della ex moglie). A un certo punto sembra di assistere alla nuova edizione del Grande Fratello, versione italo-americana: l'attore assiste svogliatamente a reiterati spettacoli di lap dance a domicilio, si addormenta ubriaco in due momenti pseudoerotici, si alza con i postumi della sbornia almeno per tre volte (e infatti lo vediamo bere birre e superalcolici a ripetizione), fa la doccia e si lava i denti, vaga con il suo bolide senza che la regista ci risparmi una sola curva e un solo cartello stradale, rimorchia tante donne molto disponibili (è anche un po' misogino questo film).
E tutto è descritto pedissequamente per farci capire nientemeno che il divo è depresso, che la sua vita a Los Angeles non è l'oro luccicante che noi poveri mortali immaginiamo e ogni sua frase sembra essere studiata per rimandare a qualcosa, tenendoci tutti con il fiato sospeso: invece no. Quel qualcosa è niente. Oppure ha già detto tutto, dai primissimi fotogrammi. E quel tutto è appunto: niente. Insomma, perché "Somewhere" vince a Venezia?
Perché in tanti colleghi già si allineano compatti per sponsorizzare il verdetto della giuria, in un rimando di sbrodolamenti e di timori reverenziali? Perché si vuole mandare la gente a vederlo facendo finta che si tratti di un film impegnato soltanto perché è lento, di un film poetico perché parlano tutti poco? Perché quella stessa gente dovrà uscire dalla sala "credendo" che il film gli sia piaciuto perché sicuramente dietro quel "film-poesia" (come ha osato definirlo Roberto Silvestri sul Manifesto!) c'è un messaggio segreto?
E perché, infine, un altro critico come Paolo D'Agostini su Repubblica, per stroncare la "Tempesta" di Julie Taymor, vuole sottolineare che "siamo dalle parti degli esercizi da ammirare ma ci piace di più il cinema che sentiamo più vicino a noi" (noi chi?), quasi a dire che dobbiamo restare a storie che non ci facciano pensare, che non ci facciano sognare e immaginare, che parlino il "nostro" linguaggio (nostro di chi?)? Una risposta, inconsapevolmente, ce l'ha data proprio uno spettatore di "Somewhere", fuori dalla sala: "Mi è piaciuto, mi sono fatto cullare da questo nulla".
Ecco, se dobbiamo passare da una realtà di routine, lavoro, traffico, rapporti umani azzerati, violenza, indifferenza, qualunquismo politico al reality-chic nel cinema, al red-carpet dell'anaffettività, allo stereotipo in cinemascope della nostra tv di veline e berlusconi, allora forse è meglio che rimaniamo a casa, possibilmente a telecamere e cineprese spente.

Nessun commento:

Posta un commento