di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo

di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo



mercoledì 29 settembre 2010

4. "Housegate" e gargarismi

Gli storici del futuro ci spiegheranno tra un ventennio a che punto siamo ridotti, all’alba di questi anni Dieci, se per mesi la nostra attenzione è stata indotta, forzata sul pensile da cucina di una presunta residenza monegasca del Presidente della Camera, se sia stato o meno acquistato da Scavolini o da Merloni; e se il citofono sia stato riparato e da quale elettricista, e chi siano i veri vicini di casa del cognato: occasione, questa, per conoscere ogni parentela di Gianfranco Fini, diretta e indiretta, compresi gli ex fidanzati della sua compagna.
 Il nuovo “Housegate” condito in salsa italo-caraibica sarebbe mirato a fare fuori un (falso) oppositore, ex fascista del Msi e attuale del Pdl, per ridurci al misero orizzonte di un governo di destra contrapposto a una opposizione di destra.
E ciò avviene mentre già subiamo quell’altro quotidiano teatrino di cartapesta verde dove, tra donne ovviamente seminude e rampanti lumbard ritardati, un malato di mente urla gargarismi post-ictus xenofobi e campanilisti, debitamente tradotto, decodificato, sottotitolato da media consenzienti. Un italiano incomprensibile ai più, il suo, che forse è già la lingua che si insegnerà nelle scuole baciate dal Sole delle Alpi.
Annaspiamo in pieno Bar sport, nel delirio di una enorme tifoseria monocolore che finge di giocare contro se stessa, ma senza arbitri. Abbiamo già girato le televisioni “a reti unificate” contro il muro, come un tempo suggeriva Boris Vian, ma siamo comunque, ovunque inseguiti dagli strilloni dell’informazione dell’unico eterno giornale editore server testata.
Da questo affanno, intravediamo il nuovo simbolo della Sinistra: incudine e martello. Sulla sigla da metterci in mezzo, stanno ancora litigando.

venerdì 24 settembre 2010

3. Clandestino Day

Oggi, in occasione del Clandestino Day, si potrebbe partire da una riflessione sul linguaggio. Quello che bandisce, fomenta diffidenza e xenofobia, sposta lentamente il senso comune tra un “noi” e degli pseudo “altri”.
“Clandestino” è una di queste parole-muro, parole-arma. Sembra innocua, soltanto “mediatica” e abusata sui giornali italiani, invece evoca segretezza, ombra, legami con la criminalità… Citiamo dall’appello di Giornalisti Contro il Razzismo: "Viene utilizzata per indicare persone straniere che per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno, per quanto vivano alla luce del sole, lavorino, conducano esistenze 'normali'".
Sono così definite "clandestine" persone che non sono riuscite a ottenere il permesso di soggiorno o a rinnovarlo a causa dell’impraticabile burocrazia italiana, altre che sono entrate in Italia con un visto turistico poi scaduto. Peggio, sono a grande maggioranza rifugiati, profughi, richiedenti asilo e in attesa di una risposta alla loro richiesta, o ancora sfollati in fuga da guerre o disastri naturali.
E’ sempre possibile evitare questa parola stigmatizzante e usarne un’altra, come afferma questo appello e anche la ancora poco rispettata dai giornalisti “Carta deontologica di Roma sui richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti”.
Inoltre “clandestino” non significa niente: un’infrazione amministrativa non definisce un uomo. E, visto che ci siamo, mettiamo anche al bando le parole “vu cumprà”, “extracomunitario”, “nomadi”, “zingari, “barbari”… e teniamo gli esseri umani!

mercoledì 15 settembre 2010

2. Se la Mostra del cinema premia la reality

C'è qualcosa di marcio a Venezia. Altrimenti "Somewhere" di Sofia Coppola non si sarebbe aggiudicato il Leone d'oro. Intanto il film non dice davvero niente. A cominciare dal soggetto da due righe: un attore famoso di Hollywood consuma la sua vita tra alcool, aspiranti starlette che gli si offrono a ogni angolo, medicine ingurgitate un po' a caso, giri a vuoto con la sua supermacchina nera, fino a che non si ricorda di avere una figlia che, con la sua presenza lieve ma integerrima, finalmente lo redime. I rari dialoghi, poi, sono perfettamente banali, vuoti.
E il modo di raccontare la storia è piatto, realistico, senza immagini (a parte una o due, a voler essere pietosi: la bambina che pattina sul ghiaccio che probabilmente avvolge anche suo padre e quest'ultimo che frigna telefonicamente la sua nullità all'indirizzo della ex moglie). A un certo punto sembra di assistere alla nuova edizione del Grande Fratello, versione italo-americana: l'attore assiste svogliatamente a reiterati spettacoli di lap dance a domicilio, si addormenta ubriaco in due momenti pseudoerotici, si alza con i postumi della sbornia almeno per tre volte (e infatti lo vediamo bere birre e superalcolici a ripetizione), fa la doccia e si lava i denti, vaga con il suo bolide senza che la regista ci risparmi una sola curva e un solo cartello stradale, rimorchia tante donne molto disponibili (è anche un po' misogino questo film).
E tutto è descritto pedissequamente per farci capire nientemeno che il divo è depresso, che la sua vita a Los Angeles non è l'oro luccicante che noi poveri mortali immaginiamo e ogni sua frase sembra essere studiata per rimandare a qualcosa, tenendoci tutti con il fiato sospeso: invece no. Quel qualcosa è niente. Oppure ha già detto tutto, dai primissimi fotogrammi. E quel tutto è appunto: niente. Insomma, perché "Somewhere" vince a Venezia?
Perché in tanti colleghi già si allineano compatti per sponsorizzare il verdetto della giuria, in un rimando di sbrodolamenti e di timori reverenziali? Perché si vuole mandare la gente a vederlo facendo finta che si tratti di un film impegnato soltanto perché è lento, di un film poetico perché parlano tutti poco? Perché quella stessa gente dovrà uscire dalla sala "credendo" che il film gli sia piaciuto perché sicuramente dietro quel "film-poesia" (come ha osato definirlo Roberto Silvestri sul Manifesto!) c'è un messaggio segreto?
E perché, infine, un altro critico come Paolo D'Agostini su Repubblica, per stroncare la "Tempesta" di Julie Taymor, vuole sottolineare che "siamo dalle parti degli esercizi da ammirare ma ci piace di più il cinema che sentiamo più vicino a noi" (noi chi?), quasi a dire che dobbiamo restare a storie che non ci facciano pensare, che non ci facciano sognare e immaginare, che parlino il "nostro" linguaggio (nostro di chi?)? Una risposta, inconsapevolmente, ce l'ha data proprio uno spettatore di "Somewhere", fuori dalla sala: "Mi è piaciuto, mi sono fatto cullare da questo nulla".
Ecco, se dobbiamo passare da una realtà di routine, lavoro, traffico, rapporti umani azzerati, violenza, indifferenza, qualunquismo politico al reality-chic nel cinema, al red-carpet dell'anaffettività, allo stereotipo in cinemascope della nostra tv di veline e berlusconi, allora forse è meglio che rimaniamo a casa, possibilmente a telecamere e cineprese spente.

martedì 7 settembre 2010

1. Fuori il "diverso" dalla società degli "uguali"

In questa estate fangosa, un parallelismo inquietante tra le notizie continue di omicidi contro le donne e l'ondata xenofoba che ha caratterizzato cronaca e politica, pone con forza una domanda nuova. Non sarebbe da evidenziare il nesso invisibile, sotterraneo, tra la violenza contro le donne e quella nei confronti degli immigrati? Non sarebbe infatti un annullamento, pressoché identico, contro il diverso da sé?
Nel primo caso, a venirci in mente non è certo "la brusca mutazione antropologica" dei rapporti tra i sessi ricordata da Luigi Cancrini (l'Unità, 6 settembre), né la normale dialettica sulla parità che secondo lo psichiatra sarebbe "un elemento di conflitto alla base di molti dei delitti più gravi". Piuttosto, si dovrebbe affermare senza ombra di dubbio, ed è paradossale che tocchi a noi farlo, che, se un uomo arriva ad ammazzare una donna, si tratta di malattia mentale, e che semmai questa va individuata partendo proprio dalla "pulsione di annullamento" (Massimo Fagioli).
Nel caso degli immigrati, l'accanimento appare semmai sotto altre forme, che vanno dall'insulto, alle botte o al respingimento, quando non all'eliminazione fisica, ma la sostanza dell'annullamento del diverso è la stessa. Sfociato negli ultimi mesi, nell'accesso delirante di propaganda politica e culturale, dalla Francia all'Italia, di una "necessaria" espulsione di qualche centinaio di rom (figura che rappresenta il diverso per antonomasia), come se quella fosse la soluzione ai mali della società occidentale.
Parallelismo inquietante, forse. Ma come non cogliere che sia la donna, sia l'immigrato, propongono una immagine irrazionale e sconosciuta? Sradicare ogni "diverso" dalla società degli "uguali" porterà soltanto a specchiarsi in una figura monocromatica, maschile, razionale. Praticamente un mostro.